Paesaggi spettacolari che mostrano in un’unica immagine lo scorrere del tempo e l’avvicendarsi dei cambiamenti di luce, forme e colori. Sono i soggetti preferiti da Giovanni Albani Lattanzi, professionista che, fin dagli anni della pellicola, sperimenta con le pose lunghe e le multiesposizioni.
«È tutta colpa dei film americani. Ci sono cresciuto, guardandoli. Ero affascinato dal mito degli esploratori, degli avventurieri e, più tardi, dalle immagini catturate dai fotografi del National Geographic. Sognavo di diventare uno di loro, ma anche di fare l’archeologo o il paleontologo. Diciamo che non avevo le idee chiare sul lavoro, ma sullo stile di vita sì». Esordisce con divertito entusiasmo Giovanni Albani Lattanzi quando gli chiediamo di raccontarci le sue origini fotografiche «(…) Ho studiato geologia all’università ma ho mollato a qualche esame dalla laurea e ho cominciato a fare il giornalista. Nel 1990 ho trovato una collaborazione con il neonato STAS, il servizio tecnico di archeologia subacquea. Dovevo far sì che le riviste parlassero delle scoperte fatte da questo nucleo. Avevamo storie fantastiche da raccontare, ma non le fotografie per documentarle. Così chiesi a un amico fotografo pubblicitario di potergli fare da assistente. Comprai una Yashica e iniziai a provare. Studiavo le riviste, le loro foto, leggevo libri di fotografia, scattavo. E buttavo pellicole e stampe. Spendevo pure bei soldi, ma funzionò. Nel ‘92 iniziai a lavorare direttamente con le riviste, poi con le case editrici. Gli anni Novanta furono fantastici: trascorsi molti mesi all’estero, in Medio Oriente, nell’Europa dell’Est, e viaggiai in tutta l’Italia, sopra e sotto l’acqua. Diventai il fotografo del cantiere subacqueo dei bronzi di Brindisi e il National Geographic volle pubblicare una mia storia sulla scoperta. L’anno seguente il loro fotografo Lou O. Mazzatenta mi prese come assistente e, in seguito, lavorai con James Stanfield, anche lui nello staff del National Geographic. Sono rimasto nel settore della fotografia editoriale per vent’anni, sempre nell’ambito dell’arte e dei beni culturali, con puntate nella nautica di lusso e nel mondo militare. Nel 2004 ho iniziato a insegnare fotografia e mi sono dedicato sempre più spesso al paesaggio e alle tecniche avanzate che l’avvento del digitale apriva».
Un racconto affascinante, quello di Giovanni Albani Lattanzi, dal quale emergono la sua energia, l’indole curiosa e l’ingegno eclettico, stemperati dal rigore della ricerca e del metodo. Prova ne sono le fotografie di paesaggio pubblicate in queste pagine, realizzate con diverse tecniche di ripresa con lunghi tempi di posa, per le quali è apprezzato in Italia e all’estero. «Queste tecniche mi hanno affascinato da sempre. Sono visioni, sogni materializzati e scenari che non esistono nella realtà ma solo nella mia mente e che cerco di rendere visibili a tutti. Mi aiuta una strana capacità di “vedere con la testa” e, in seguito, provo anche a fotografare. Poi la pratica dello scatto è facile…».
Mica per tutti…
Non lo è stato neanche per me all’inizio, quando mi sono avventurato con queste tecniche scattando in pellicola. Anche qui sono stato traviato dal National Geographic. Vedevo foto superbe fatte con queste tecniche e mi veniva voglia di rifarle. In quegli anni tutto era basato sulla sperimentazione, ti dovevi ingegnare. Non esistevano tutorial o manuali… Studiavi fisica, astronomia, ottica. Poi provavi, sviluppavi e riprovavi. Molte attrezzature che usavo per illuminare erano autocostruite.
Cosa fotografavi all’epoca? E, soprattutto, come?
Le prime prove di startrail le feci in pellicola. Era una tecnica abbastanza semplice: per fotografare le stelle bastava lasciare l’otturatore aperto, di notte, per qualche ora e poi trovavi la foto impressa sul fotogramma. C’era un mondo dietro che ho scoperto con il tempo. Feci delle prove ma poi lasciai perdere, perché in pellicola esistevano problematiche quasi insuperabili, almeno nelle situazioni in cui fotografavo io. Il lightpainting, invece, dava risultati fantastici e proseguii senza smettere mai. Il problema di fondo di queste tecniche in epoca analogica era che, contrariamente al digitale di oggi, non ammettevano errori. Non esisteva la postproduzione, quindi non potevi recuperare nulla e le foto imperfette nessuno le comprava. Scattare questi scenari in pellicola richiedeva che tutto il lavoro venisse fatto senza interruzioni mentre oggi, in digitale, si possono frazionare le riprese con tecniche speciali, suddividendole in tanti scatti singoli che poi vengono fusi tra loro in postproduzione. Non parliamo poi di temperatura del colore, visto che non esisteva il concetto di bilanciamento del bianco. O del fatto che usavo pellicole Fujifilm, la Velvia 50 ISO e la 64T per luci al tungsteno, quindi con sensibilità bassissime che richiedevano molta luce o tempi di illuminazione molto lunghi. Mentre lo startrail è un effetto speciale di sfondo che serve a rendere interessante una scena notturna, il lightpainting è un’arte maledettamente complessa, se vuoi ottenere risultati davvero buoni. Soprattutto è difficile pensare prima la scena, previsualizzarla per crearla. Io l’ho sempre usata, soprattutto per le foto di beni culturali, monumenti, oggetti o statue. Poi l’ho trasferita al paesaggio.
A un certo punto sei salito… sulle nu- vole con la tecnica del cloudtrail…
È stato un effetto collaterale. Facendo tanti startrail mi sono accorto che le nuvole notturne a volte creano particolari effetti “a scaletta” e ho voluto approfondire. Poiché riprendo in video anche molti time- lapse, ho iniziato a registrare alcune sequenze di scatti con il cielo nuvoloso e le ho analizzate. Ho provato a usarne alcune come se fossero foto notturne di stelle e le ho processate con il software gratuito dedicato startrail.exe. Il risultato mi ha intrigato, così ho iniziato a studiare i video dei timelapse e le relative serie di fotogrammi per capire quali fossero le variabili che davano il risultato più interessante. Ho impiegato un paio di anni di prove per capire il meccanismo, che non è così automatico, anzi, direi molto artigianale.
Spiegaci meglio, sul piano pratico.
Io l’ho chiamato cloudtrail proprio perché è nato dallo startrail e perché …
di Emanuela Costantini
(la versione integrale dell’articolo è pubblicata su “Fotografare” #12, Ottobre 2020)
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