Dopo l’apprendistato nella pittura, Massimo Lovati è approdato alla fotografia di sport diventando uno dei professionisti di punta a livello nazionale. Proprio in quest’ambito ha trovato il terreno ideale per proseguire la sua ricerca artistica, senza perdere di vista le esigenze della documentazione.
di Emanuela Costantini
Lo sport, per Massimo Lovati, è stato un pretesto. Almeno all’inizio, quando nei primi anni Settanta decise di lasciare gli studi di medicina per avventurarsi nella sperimentazione artistica, frequentando per alcuni anni lo studio del pittore Rocco Borella a Genova, città in cui Lovati è nato e vive tuttora. Con il suo maestro fece ricerca sull’arte concreta, sul colore, le geometrie e la scomposizione dell’immagine, e più tardi trasferì queste esperienze nella fotografia. Ma il sacro fuoco dell’arte Lovati lo aveva acceso ancor prima di andare a bottega, divorando libri sulle avanguardie di inizio Novecento che guardavano con entusiamo al futuro, alla modernità e alla velocità, concetti che hanno messo radici nel suo immaginario e dato nuova linfa al suo sguardo. Il fascino per l’astrazione e le possibilità offerte dallo strumento fotografico di destrutturare e amplificare l’immagine visivamente e semanticamente, sono entrati a pieno titolo nel linguaggio e nel modus operandi della sua fotografia. Concetti e pratiche che ha attualizzato e personalizzato: dalla frammentazione del movimento di Marey e Muybridge al dinamismo plastico dei futuristi Balla e Boccioni, dalla scomposizione dell’oggetto di Picasso alle pose lunghe delle fotodinamiche dei fratelli Bragaglia fino alla decontestualizzazione dei ready made di Duchamp. Ma oltre al Lovati-artista conosciamo il Lovati-fotogiornalista che ha costruito la sua carriera documentando le più importanti manifestazioni sportive, collaborando con le federazioni e con aziende del settore. Eppure lui non si definisce un fotografo di sport; il suo fine è sempre stato quello di fare arte e di dare spazio alla creatività, utilizzando la fotografia come mezzo e lo sport come occasione. Non a caso ha spesso fotografato la stessa situazione con approcci diversi, per la committenza e per se stesso, scattando a 1/1000 e a 1/8 di secondo. In altri casi è riusci to a convogliare i due stili nello stesso scatto. Ne sono nate immagini in cui il guizzo creativo e la spinta a tradurre la prosa dell’agonismo in una visione poetica e felicemente effimera dell’azione, ne esaltano le suggestioni percettive, senza eludere i paletti del documento.
Un approccio coraggioso il suo che, a partire dagli anni Ottanta, ha rinnovato la fotografia di sport, sdoganando tecniche come il mosso estremo e la multiesposizione, fino a quel momento considerate un tabù nel linguaggio virile e spesso didascalico delle cronache sportive. Una ventata d’aria fresca che ha fatto da apripista a un modo di raccontare lo sport che appaga lo sguardo oltre al tifo.
Dalla voglia di sperimentare con la fotografia a una carriera da professionista nella cronaca sportiva, il passo non deve essere stato breve…
Contemporaneamente all’esperienza con Borella, ho insegnato chimica in un liceo per qualche anno. Ero diventato amico di Lino Burlando, un grande fotografo di still life per Piaggio che mi aveva istruito a lavorare in camera oscura. Intanto continuavo a fotografare lo sport, collaboravo con alcune testate di football americano che mi consentirono di prendere il tesserino da giornalista. Di lì a poco sono entrato in contatto con Franco Lefèvre, photoeditor di Repubblica, che mi commissionò vari lavori per Il Venerdì di Repubblica. Mi suggerì di propormi all’agenzia fotogiornalistica AGF di Roma. «Guadagni meno, però puoi fare molti più servizi», mi disse. E così feci. Iniziai a collaborare con l’agenzia seguendo manifestazioni sportive nazionali. Poi sono arrivati i campionati di varie discipline, i mondiali di calcio, le olimpiadi, la Formula 1, l’incarico come fotografo ufficiale della Federazione Italiana Nuoto, le collaborazioni aziendali…
Le tue fotografie erano diverse da quelle che si vedevano sui giornali sportivi dell’epoca. C’era più arte che cronaca…
Parliamo degli anni Ottanta. Inizialmente suscitarono qualche perplessità. Alcuni facevano ironia. «Ma lei ha il Parkinson?», m ichiedevano. Però non facevo solo fotografie “movimentate”. Scattavo anche immagini iperferme, con tempi rapidissimi. Fissavo i gesti minimi, i dettagli, le espressioni del volto, «Lovati mette a fuoco anche l’ugola del nuotatore!», disse una volta un collega. Ma anche in queste foto non mi sono mai limitato a documentare. Ho sempre cercato di interpretare, trovando punti di ripresa inusuali, sfruttando elementi secondari del contesto che potessero valorizzare la scena e rendere le mie fotografie diverse dalle altre.
Il pallino per la sperimentazione non ti ha mai abbandonato…
Ho iniziato sperimentando e continuo a farlo ancora oggi. Quando fotografo ci metto il mio temperamento, la mia anima, seguo l’istinto ma non dimentico il metodo. Amo inventare, giocare. Pensa che un giorno ho portato un giradischi in camera oscura e, al buio, ho messo un negativo 6×9 già sviluppato sovrapposto a uno non esposto e leggermente sfalsato e li ho fatti girare. Nel mentre ho acceso la luce per una frazione di secondo e poi ho sviluppato e stampato il negativo. Sono venute fuori immagini pazzesche! Mi piace anche giocare con le ombre…
Facci qualche esempio.
L’ombra che gioca a tennis, l’ombra che va a canestro… a proposito di quest’ultima, capitai nei pressi di un campo da basket di un oratorio di periferia. Vidi dei ragazzi giocare. Mi arrampicai nella parte posteriore del canestro: con una mano mi tenevo aggrappato al tabellone e nell’altra avevo una compatta. Rimasi in quella posizione per due ore, sotto al sole, ma alla fine feci la foto che volevo. Questo per dire che se hai delle idee le puoi realizzare in qualsiasi luogo e circostanza e con uno strumento modesto.

Tu sei uno sportivo?
Essendo vissuto in una città di mare, da ragazzino ci andavo spesso ma mi limitavo a nuotare da una boa all’altra. Però ho giocato a basket durante l’università. Ero in panchina in serie C, ma ho giocato poco perché non ero altissimo. Il basket è uno sport intelligente e richiede velocità di reazione.
Un po’ come la fotografia…
Vero! In un millesimo di secondo devi realizzare il massimo, inventarti strategie per segnare ma anche per scattare. Quando gli altri fotografavano dal basso io andavo in alto e viceversa. Cercavo punti di vista e inquadrature inconsuete.
Come nelle tue foto delle gare di Formula 1…
Nel 1991 ero al Gran Premio di Montecarlo per conto di un’azienda che produce abbigliamento tecnico per i piloti. Durante la gara, quando le auto entravano in curva, dovevo fotografare il marchio stampato sul guanto indossato da Ayrton Senna. Mi appostai in un punto che, in quell’occasione, mi permise di fotografare anche una serie di incidenti. Con me non c’era nessuno, dunque fui l’unico a documentarli. L’amico Daniele Amaduzzi, fotografo di Formula 1, si offrì di intercedere con Gente Motori per farmi dare l’esclusiva con le foto degli incidenti. Gli dissi che se le avessero pubblicate gli avrei dato la metà del compenso. Invece lui mi rispose: «Non voglio nulla. Mi basta dimostrare che tu, pur seguendo poche gare, hai fregato tutti noi che le fotografiamo sempre». La rivista comprò il servizio. All’epoca mi pagarono un milione e mezzo di lire.
Invece in un’altra fotografia hai trasformato una Ferrari in una specie d’insetto in volo tra le piante…
Anche questa l’ho fatta a Montecarlo nel 1991, nello stesso punto dal quale avevo fotografato gli incidenti. Prost era alla guida della Ferrari. Avevo messo la fotocamera in mezzo al fogliame che c’era sul muro affinché scattando al passaggio della macchina questa somigliasse a un calabrone in volo tra le foglie. Dopo tutti gli incidenti di quell’anno gli organizzatori fecero tagliare la vegetazione sul muro e installare delle telecamere. Quindi fui l’ultimo a scattare da quel punto.
Anche negli altri sport sei riuscito a trovare punti di ripresa originali.
Sicuramente nel nuoto, soprattutto nelle fotografie che scattavo per alcuni marchi di abbigliamento sportivo. Un giorno, durante una gara femminile, dovevo fotografare il logo che una nuotatrice aveva sul costume. Mi trovavo dietro a un blocco di partenza. La nuotatrice si preparava a tuffarsi. Inchinando il busto in avanti, avevo davanti a me le gambe, il sedere e le braccia. Somigliava a un polpo. Tra le gambe si intravedeva il logo stampato sul costume, all’altezza del petto. Ho messo a fuoco sul logo e ho scattato. I colleghi mi prendevano in giro dicendo che ero lì per ammirare le “grazie” delle atlete. Quando poi hanno visto le mie foto ho cominciato a ritrovarmeli accanto, dietro ai blocchi.
Fotografi spesso dall’alto. Perché?
Nelle finali di pallanuoto, soprattutto, mi posizionavo solitamente in alto per fotografare gli atleti che si aggrappavano alla porta avversaria quando segnavano ed esultavano o, al termine della partita, buttavano l’allenatore in acqua, oppure la cerimonia di premiazione da una punto insolito. Inoltre scattare dall’alto mi permette di escludere dalla scena alcuni elementi di disturbo e i banner degli sponsor, spesso invasivi. Anche in certi stili di nuoto è bene scattare dall’alto, come nel dorso: dal livello della piscina non si vedrebbe nulla. A volte scattavo dal basso, disteso sul bordo piscina, con un monopiede alto 30cm fatto realizzare appositamente per fotografare i nuotatori con il 600mm f/4 e coglierli in volo sulle corsie, giocando con la profondità di campo selettiva.
Anche nei tuffi hai fatto fotografie insolite, alcune decisamente divertenti…
Spesso il caso mi ha fatto scoprire punti di ripresa che mi hanno regalato delle immagini ironiche, come quella che ho realizzato nel ’92 alle olimpiadi di Barcellona. Faceva un caldo bestiale e avevo una gran sete. Seguivo le gare di tuffi, una disciplina in cui raramente accadono cose eclatanti. Andai a cercare qualcosa da bere. Durante il tragitto verso il chiosco, vidi un tuffatore in volo che si sedeva letteralmente sulla guglia della Sagrada Familia. Corsi subito alla mia postazione. Tolsi il 400mm f/2.8 dalla reflex e montai il 70-200mm per allargare l’inquadratura e contestualizzare meglio il tuffatore nel panorama, caricai una pellicola Fujifilm da 400 ASA, fatta poi tirare in sviluppo di 2 stop a 1600 ASA per poter impostare un diaframma abbastanza chiuso e avere a fuoco il tuffatore e la chiesa, oltre a un tempo breve per bloccare il movimento. Tornai in quel punto e fotografai un altro tuffatore. La foto fu pubblicata su molti giornali. Nel 2017 ho realizzato uno scatto simile durante i campionati di nuoto a Budapest: un tuffatore sembra infilzato nell’antenna del parlamento ungherese.

La messa a fuoco è un altro dilemma per il fotografo di sport, avendo a che fare con soggetti in movimento.
È una questione di pratica, di esperienza e di saper anticipare. In analogico ho sempre regolato il fuoco manualmente. Quando sono passato all’autofocus ho continuato per un periodo a lavorare in manuale perché in alcuni casi l’autofocus non lavorava come volevo. Nel nuoto, ad esempio, era ingannato dagli schizzi d’acqua. Poi, con il tempo, mi sono abituato.
Come ti organizzavi per le riprese, per muoverti sul campo?
Lavorando come freelance dovevo fare tutto da solo e coprire più situazioni. A volte mi organizzavo con più fotocamere che posizionavo in punti e direzioni diversi e gestivo con il telecomando. In questo modo era come se fossimo in tre a fotografare, guidati dallo stesso occhio. Nell’atletica leggera, ad esempio, su uno stativo davanti alla mia postazione avevo una reflex con il 70-200mm per inquadrare tre corsie, sul monopiede un’altra macchina con il 400mm f/2.8 con cui inquadravo una sola corsia; una terza fotocamera con il 28-80mm era posizionata al lato della linea di arrivo per riprendere l’infilata degli atleti al traguardo. Nel calcio, invece, dietro la porta mettevo sempre una reflex comandata a distanza con il 15mm per riprendere i tiri in rete, mentre io mi posizionavo a 10 metri dall’angolo del campo con il 100-400mm e il 600mm.
Hai fatto anche multiesposizioni, come la foto di copertina di questo numero…
Anche in questo caso le radici sono lontane: la scomposizione del movimento del Cubismo, la cronofotografia di Marey… Per anni ho fatto pratica con la pellicola, creando le cromodinamiche in cui giocavo con colore e movimento Sottoesponevo di uno stop o di uno stop e mezzo. Però preferivo comunque il mosso, lavorare con tempi lenti, solitamente intorno a 1/8 di secondo. A volte usavo anche dei filtri che mi aiutavano a creare la scia del movimento. Con le multiesposizioni ho proseguito in digitale, con la Canon 1DX che consente di realizzarle in ripresa. Negli anni Ottanta le ho fatte anche con l’analogica Canon New F-1 High Speed Motor Drive che scattava 14 scatti al secondo, anche se solitamente ne sfruttavo solo 5 o 6 scatti, perlopiù nella Formula 1 e nelle gare di slalom, per riprendere lo sciatore mentre usciva dalla porta. Quella fotocamera mi era costata quanto un appartamento di cinque vani, ma investire nella tecnologia mi ha permesso di lavorare meglio.
Cosa serve per diventare un bravo fotografo sportivo?
Bisogna conoscere ogni disciplina sportiva per fotografarla bene. E poi, sul posto, è fondamentale guardarsi intorno, studiare gli atleti più interessanti, le loro abitudini durante le performance, ma anche al di fuori. È bene anche conoscere gli allenatori perché dove si trovano loro ci sono gli atleti, e da lì puoi seguirli. Questo è utile soprattutto nel nuoto, dato che non sempre essi sono riconoscibili in costume e cuffie molto simili. Tutto questo serve ad anticipare. Se sai anticipare l’azione, anticipi anche gli altri fotografi e porti a casa il servizio.
Ci sono state occasioni i cui sei arrivato un po’ prima degli altri?
Quando ho fotografato il nuotatore svedese Anders Holmertz, soprannominato “l’eterno secondo”, noto per la sua caratteristica di non emergere mai dall’acqua mentre nuotava in stile libero. Questo rendeva impossibile riprenderlo in volto durante la gara. Una mattina mi svegliai all’alba per andare ai suoi allenamenti e studiarlo. Scoprii che solo alla penultima bracciata, prima di toccare il bordo della piscina, alzava la testa per controllare le altre corsie, in particolare la 4, quella del nuotatore più veloce. Così, finalmente riuscii a fotografarlo in viso durante la gara. I colleghi non capivano come avessi fatto. Lo rivelai solo dopo alcuni mesi…

Hai inventato le foto dei nuotatori nella “bolla”, una sorta di pellicola liquida che sembra avvolgere la loro testa prima che emergano per respirare. Di cosa si tratta esattamente?
Avevo in mente da tempo di ritrarre i ranisti nel momento in cui emergono dall’acqua ma non sono ancora del tutto fuori per farli apparire come se fossero imprigionati in una bolla che ne blocca il respiro. Ho provato a fotografarli scattando pochi millesimi di secondo prima che emergessero e, dopo vari tentativi, ho ottenuto l’effetto che volevo e l’ho esteso a tutti gli altri stili natatori.
E poi c’è la tuffatrice trasformata in farfalla.
Ci ho messo due anni per fare quella fotografia. Ero sulla piattaforma dei dieci metri, accanto a quello della tuffatrice che si trovava più in basso. Essendo il fotografo della Federazione Italiana Nuoto potevo muovermi abbastanza liberamente, sempre cercando di non disturbare l’atleta. Prima del tuffo è importante non scattare per evitare che il clic lo distragga, non guardarlo negli occhi, muoversi il meno possibile nella postazione. Volevo ottenere l’immagine di una farfalla in volo, cogliere il dinamismo puro. Conoscendo il tipo di tuffo che stava per essere eseguito, ho impostato un tempo lungo e ho scattato, aiutato dall’ombra proiettata dalla struttura dei trampolini.

Un’altra diavoleria: le fotocopie.
Dalla sede Canon di Genova, nei primi anni Novanta avevo chiesto e ottenuto la possibilità di testare una loro fotocopiatrice digitale evoluta. Sull’esempio di Bruno Munari, che già negli anni Sessanta usava le fotocopie in modo creativo per realizzare le sue xerografie, ho stampato muovendo e strisciando alcune mie foto originali sul piano della fotocopiatrice o riprodotto la stessa immagine fotocopiando lo stesso foglio cambiando ogni volta la taratura del colore. È stata una ricerca dai risultati sorprendenti, oltre che divertente. Molte opere le ho donate a Canon, con le altre ho allestito una mostra.
Qual è lo sport più difficile da fotografare?
Indubbiamente il nuoto poiché hai pochi millisecondi per fotografare in qualunque stile il volto del nuotatore, ma anche il football americano, il rugby, il tennis… Ogni sport ha delle difficoltà di ripresa fotografica che si superano con il tempo e l’esperienza.
In Italia che spazio ha oggi la fotografia sportiva? Ci sono possibilità di lavoro?
Le agenzie fanno abbonamenti con i giornali più grandi, il cartaceo ha ridotto le tirature, il web paga pochissimo. Un anno fa, una doppia pagina sul magazine di un quotidiano veniva pagata al massimo 200 euro; su un settimanale circa la metà. Una foto sul cartaceo viene pagata 50-60 euro. A queste cifre devi togliere la provvigione dell’agenzia, che può arrivare al 50%, quindi al fotografo resta ben poco. Fino a quindici anni fa la situazione era ben diversa.
La tua mostra visitabile fino al 12 settembre al Museo dei Campionissimi di Novi Ligure si intitola “Fotogrammi di una ricerca: da 1/8 a 1/1000”. Come nasce?
È una selezione di oltre trent’anni di fotografie scattate in tutto il mondo nei più svariati eventi sportivi, da quelli locali ai campionati mondiali di varie discipline, fino alle olimpiadi. Un percorso binario costruito sui diversi approcci che ho portato avanti in tutta la mia avventura fotografica: ci sono le immagini riprese a un millesimo per bloccare l’azione al suo apice e le mie interpretazioni del movimento, lavorando con tempi lenti: un ottavo, un quindicesimo… Spesso si tratta delle stesse situazioni riprese nelle due modalità da cui sono scaturite immagini molto diverse che riassumono il senso di tutta la mia ricerca.
Articolo pubblicato su Fotografare #22 Agosto-Settembre